Fu presto chiaro:

il viaggio in Iran non sarebbe stato come tutti gli altri. Una voce dall’altoparlante dell’aereo della Turkish Air sul volo Istanbul – Teheran comunica i soliti dati sulla temperatura e sull’orario di atterraggio; poi aggiunge una frase che non colgo e improvvisamente decine di donne si alzano, frugano in bagagli e borsette e spiegano un foulard colorato o un velo di colore scuro. Siamo appena entrati nello spazio aereo iraniano. Laura e le altre se lo aggiustano sul capo, scambiandosi sorrisi divertiti e imbarazzati allo stesso tempo; poi allacciamo le cinture e in pochi minuti, alle 2 della notte del 2 agosto 2000, atterriamo sul suolo islamico.

L’aeroporto di Teheran è ordinato, silenzioso dominato da una gigantografia di Khomeini, l’ayatollah che tutto osserva, spesso affiancato dall’icona di Khameneiche ci accompagneranno in uffici, piazze e piattini di ceramica nei bazar. Assolviamo gli impegni doganali e prendiamo un taxi contrattando, come di consueto, prima di salirvi. Il viaggio notturno verso l’albergo non ci consente di apprezzare particolari interessanti se non la Torre Azadi, il grande arco illuminato che rappresenta la capitale in molte raffigurazioni sulle guide e situato a pochi chilometri dall’aeroporto.

Alle 10 del mattino seguente siamo pronti per uscire ma il primo impatto non è del tutto piacevole. Ci sentiamo osservati, scrutati: marziani scesi in terra. Dobbiamo effettuare un cambio da dollari in Riale la prima meta è una banca; vi giungiamo dopo aver transitato di fronte al museo nazionale del gioiello e alla ambasciata britannica, quasi un fortino che ci fa comprendere quanto siano delicati i rapporti con l’occidente. La banca che scegliamo è sfarzosa ed elegante: le donne impiegate sono la maggioranza; una bella sorpresa, almeno per l’occupazione, riguardo alla posizione sociale femminile. I tempi sono lenti ma alla fine usciamo con un bel malloppo (circa 500 $) e cominciamo finalmente a fare i turisti.

La fida Lonely Planetscrive di possibilità di cambio a buon prezzo in una piazza lì vicino ma raccomanda di stare molto attenti nel non farsi cogliere sul fatto, anche se i turisti non rischiano quanto i locali. Perché non farci un salto? Così, per curiosità tanto per capire se alla banca avevano applicato un tasso soddisfacente. Arriviamo sul posto e subito siamo attorniati da un gruppo di ragazzi: “Rial, Rial” ripetono e provo a chiedere il cambio. È insensatamente conveniente, penso che sarebbe il caso di cambiare altri dollari e frugo nel portafogli. Un uomo scatta in avanti, mi spintona e cerca di afferrarmi il portafogli, gli altri si dileguano e io provo a scappare. Quello mi insegue e improvvisamente sento un colpo alla gamba e mi trovo a terra con lui sopra e un manganello in mano, di quelli fatti a L come nei telefilm americani.

Era un poliziotto e stava facendo quello per cui era pagato, peccato che mi avesse preso per un iraniano, almeno fino a quando non si mette a frugare tra i documenti. Poi però il suo atteggiamento non cambia. Sostiene che tutti quei soldi li avevo presi dal cambio illegale e che quindi erano sequestrati. Mentre chiama rinforzi ci rendiamo conto che una trentina di passanti ci hanno attorniato e che disposti a cerchio discutono animatamente fra di loro e qualcuno si rivolge direttamente al poliziotto. Un uomo con la barba si avvicina a me e in un inglese molto comprensibile mi dice di stare tranquillo e si offre di farmi da interprete: riferisce subito al poliziotto quello che gli ho riportato e cioè che i soldi arrivano dalla banca e che avevo chiesto il cambio per curiosità (piccola bugia…).

Sembra che il gruppo (che aumenta) sia dalla mia parte e il poliziotto è in difficoltà, ma insiste. Poi un’illuminazione. La ricevuta della banca che ovviamente avevo tenuto per ricordo (come tutto del resto, e di tutti i viaggi) diventa improvvisamente la prova della mia innocenza e passa di mano in mano di tutti coloro che avevano assistito all’inusuale spettacolo; la gente annuisce e il poliziotto grattandosi il capo decide che può andare e mi lascia con un rimbrotto. Stringo decine di mani e facce sorridenti per come la storia e finita mi salutano in nome di Allah: uno di questi mi restituisce una banconota da 50 dollari che mi era scivolata di tasca nella confusione e mi spiega che per loro è immorale appropriarsi del denaro di un infedele.

Decidiamo di tornare in albergo per riprenderci un po´ e dopo qualche passo e un’aranciata in una piccola drogheria in cui cominciamo a chiederci dove siamo capitati, ci accorgiamo che un gruppetto di 10-15 persone continua a starci dietro, discretamente, quasi a proteggerci le spalle. Noi proviamo a cambiare direzione ma questi continuano, e quando ci fermiamo si bloccano anche loro, referenti e sorridenti. Dopo quasi un´ora il gioco comincia a preoccuparci ma i 6-7 sopravvissuti in coda ci spiegano che per loro è un dovere e che ci avrebbero accompagnato all’albergo. E così accade.

Quando si allontanano abbiamo il tempo per un´altra passeggiata di poche ore ma siamo stanchi dal viaggio e per la tensione e decidiamo di anticipare il riposo.

Ma non era finita per niente. E’ circa l´una di notte e sentiamo qualcuno alla porta. Non ci si spaventa solo perché l’albergo è (per i loro canoni) di lusso e la sicurezza interna è assicurata. È il direttore che comincia con le scuse, ma fermamente mi chiede di scendere nella hall perché, spiega, “…there is a little problem”. Gli chiedo che genere di “problem” e lui mi parla di una strana storia di dollari e polizia.

Scendo e chi mi trovo? Il poliziotto, uno dei “protettori” -quello col barbone- e un signore con una ricetrasmittente al collo.

È notte, sono in un Paese più alieno che straniero e mi sento come in un racconto di Kafka. Il direttore mi tranquillizza, mi fa da interprete e comincio a capirci qualcosa.

Personaggi: il signore con la radio al collo è il capo del poliziotto e ha ricevuto delle denunce contro il suo sottoposto per avermi lanciato il manganello. Ciò non è tollerabile perché “gli stranieri sono sacri” e per questo rischia una punizione. Il direttore mi fa capire che quest´uomo ha famiglia e di non essere duro con lui. Io non ci penso nemmeno perché voglio chiudere la faccenda al più presto e gli dico che lui ha fatto bene il suo mestiere e che doveva essere premiato per questo e che ero io ad aver fatto un “little mistake…”. Ecco fatto. L’altro continua a ridere e annuire come aveva fatto per tutta la mattina e il poliziotto assolto da me in un processo per direttissima notturno svoltosi in un albergo mi saluta inchinandosi e mi bacia la mano in nome di Allahe dei suoi figli. Sembrano tutti contenti e mi chiedo ancora se in futuro conoscerò una persona più impicciona di quel barbuto che rideva sempre.

Torno a dormire, per fortuna il giorno dopo si parte per Isfahan, un altro mondo.
Al mattino prendiamo un taxi che ci porta alla stazione degli autobus (quella filmata nel film Il cerchiodi Panahi per intenderci). Un’occasione per vedere Teheran con il suo traffico, le sue 50 sfumature di grigio, i muralesinneggianti alla rivoluzione conKhomeini al posto del Che. Un viaggio breve ma indicativo sullo spirito della città, sulle ragazze con Nike e chador, oggi direi stile Marianne Satrapi, e i bambini che giocano a pallone in cortili e pietraie fra gli anfratti dei palazzi.

Isfahan

Decidiamo di utilizzare i bus della Saero Safar (tenere in mente per le prossime puntate) azienda di proprietà dell´ex presidente Rafsanjani che sono considerati mezzi extralusso e che costano qualcosa come 10 lire a chilometro… ce li possiamo permettere. Occupiamo i posti anteriori e ci rendiamo subito conto di come tutti i passeggeri che entrano ci guardino e sorridano. Il bus parte e il secondo autista ci offre il primo di un’interminabile serie di the. Il the in Iran è come una sigaretta, se ne possono fare anche 20 al giorno e si offrono automaticamente con la differenza che mentre in Italia puoi dire che non fumi, laggiù è più complicato rifugiarsi dietro ad un “non bevo grazie”; per cui si prende il bicchierino e si ingurgita la bevanda per tutte le volte che serve.

L’autista mette una cassetta nel videoregistratore e improvvisamente compare Sella d’Argentocon Giuliano Gemma doppiato in farsi che se non ci inorgoglisce poco ci manca; subito dopo ecco una comica di Mr Beanche fa piegare il bus dalle risate. Buffo pensare che la prima volta che vidi gli sketch di Rowan Atkinsonmi trovassi sull’aereo che mi portava negli Stati Uniti; tutti si sganasciavano dalle risate per le sue prodezze, scena oggi praticamente identica che fa pensare ai meccanismi universali della comicità.

Nei pressi di Qom, città sacra di Khomeini, c’è una grossa rotonda su quella che potremmo chiamare tangenziale e il bus si ferma in uno dei tanti caravanserragli che ricordano da vicino in nostri autogrill. Una sorta di non-luoghi tutti uguali con un paio di sostanziali differenze: la presenza di moschee ricavate da salette rigorosamente divise fra uomini e donne che permettono di rivolgere le proprie preghiere anche durante lunghi viaggi, e –cosa ben più grave- l´assoluta mancanza di alcolici.

Il nostro aspetto non passa inosservato e una decina di ragazzini ci circonda sorridendo e una bambina dona a Laura una pinza fermacapelli, per lei probabilmente preziosa, che si sarebbe rivelata molto utile nei giorni seguenti per domare il velo ribelle. Qualche adulto ci pone le fatidiche domande che avremmo sentito a lungo: dove siamo diretti e come ci chiamiamo ma soprattutto da dove veniamo e come si vive in Italia. Ogni popolo ha una domanda. In Paesi meno sviluppati, capita che lo straniero sia accolto pigramente, al massimo con un universale uottsiorneim, mentre in altri si domanda se il proprio Paese piaccia o no. Qui le richieste sono molto più circostanziate, segno di una frizzante curiosità intellettuale e verso la conoscenza più approfondita di una cultura a loro del tutto estranea, a differenza nostra, con molte più difficoltà nell’informarsene.

Sul bus facciamo amicizia con un ragazzo, all’apparenza di 40, 45 anni: quando ci dice di averne 25 anni il nostro mento cade e tradisce stupore, ma la gaffe ci salverà per le volte seguenti, quando ci saremo resi conto che l´età apparente è sensibilmente superiore alla nostra. Il ragazzo è gentilissimo, quasi affettuoso e per un paio di ore ci aiuta a entrare nel mondo iraniano. Scesi a Isfahan, si offre di trattare per noi presso gli hotel segnalati nella Lonely ma succede qualche cosa di strano: sembra che gli alberghi siano tutti pieni e, almeno all’inizio pensiamo che sia vero. Poi capiamo che gli albergatori trattano più facilmente con i dollari e a noi sembrano aprirsi tutte le porte che prima sembravano sbarrate. Ali, così si chiama, si sente un po’ umiliato e cerca di entrare nelle nostre discussioni fino a che, un po´ cinicamente, siamo costretti ad allontanarlo, cercando di essere cortesi ma con molta decisione. L´avventura di 24 ore prima probabilmente era ancora fresca e cominciavamo a capire che se avessimo dato retta a tutti, con la loro invadenza mista di cortese insistenza non ci saremmo più mossi.

Isfahanè affascinante e i bazar, i giardini, i ponti e le moschee sono davvero da mille e una notte: colpiscono il numero di cinema e l´ordine della città, così diverso dal caos della capitale. I mercati sono probabilmente i più chic del Paese e qui, dopo il primo vero pasto dall’arrivo in Iran, cominciamo ad assaporare quell’atmosfera di affetto e cortesia che ci sarebbe rimasta per sempre nel cuore.

La piazza, simbolo della città, è rettangolare, con un giardino al centro e con decine di famiglie che pranzano sull’erba, quasi come a Pasquetta qui da noi. I portici che la circondano sono piacevoli da visitare con fornai, ebanisti e fabbri nelle loro botteghe su strada che ricordano gli artigiani del presepio. La moschea è splendida, da poco restaurata e la mancanza di turismo per come lo consideriamo noi ci concede spazi e silenzio per godercela al meglio.

In un mercatino quattro ragazze ci fermano e s’informano con simpatia sulla nostra provenienza: sono giocatrici di una squadra di pallavolo e quando scoprono che in Italia faccio l’arbitro non si staccano più. Ci scattano foto e spiegano che sono fortunate a fare sport. Forse riusciranno a lasciare il Paese per qualche manifestazione e durante le ore di allenamento riescono ad evitare il chadorper una concessione degli Imam a chi pratica il volley. Ci salutiamo dopo aver loro augurato che il loro sogno si avveri. Ci fermiamo forse troppo poco ma il viaggio e lungo. La prossima tappa è Yazd, sito protetto dall’Unesco e capitale dello Zoorastrismo.

Le case basse, fatte di argilla, sono cotte dal sole e lo spettacolo è notevole tanto da far dimenticare presto la brutta impressione che abbiamo avuto all’arrivo alla stazione dei bus. Capitiamo nel giorno di festa e la stazione è infestata da innocui ma fastidiosi perditempo, non certo così discreti come nell’intellettuale Isfahan. Alcuni taxisti ci assalgono e iniziano a ridere di noi e a proporci improbabili tour a costi sproporzionati: fatichiamo a trattare imponendo un costo “di mercato” ma finalmente riusciamo a raggiungere l´albergo. Posto piuttosto squallido, con un vecchietto secco, senza denti sgarbato e inospitale che ogni tanto si prende il lusso di entrare di nascosto nella nostra stanza. Lo cacciamo via ogni volta e lui si schermisce con la scusa di volerci offrire un the.

Lasciamo l´albergo in tarda mattinata per recarci dallo strozzino del paese, un certo Aziz, su suggerimento della solita guida-bibbia. Ci addentriamo in vicoli complicati e affascinanti e dopo un’oretta giungiamo a destinazione. Facciamo qualche scalino e un uomo di mezza età ci accoglie con un sigaro spento ciancicato in bocca e con alle spalle una cassaforte di acciaio con una grande maniglia al centro. Roba vista solo alla Wells Fargo. Mellifluo quanto basta ci propone tassi di cambio prima sconcertanti, poi sempre più sensati e ad affare concluso ci congeda amichevolmente.

Usciamo dal suo ufficio e il solito drappello di curiosi ci aspetta all’uscita: questa volta sono ragazzini in bicicletta, guidati da una teenager piuttosto sveglia che parlandoci in un buon inglese ci tempesta di domande: chi siamo, da dove veniamo, che musica ascoltiamo. Sono simpatici quei 5 e decidiamo di accettare il loro invito a casa (una delle case protette dall’Unescotra l’altro) dove saremo gli ospiti d´onore alla festa della serata.

Camminiamo per pochi minuti per raggiungere la loro casa con uno di questi, il più strambo, che urlando di felicità ci gira intorno sulla sua “simil-graziella”scassata finché arriviamo a destinazione. Ci accolgono in venti, forse trenta: genitori, amici, parenti e affini richiamati dai due strani turisti occidentali in visita a casa loro. Le donne si prendono in cura Laura e probabilmente si mettono a parlare di scarpe e borse, gli uomini si prendono in cura me e mi chiedono di Baggio e Schillaci. Tutto il mondo è paese.

Mi riservano un grande onore che mi sforzo di apprezzare: mi fanno accomodare sul cuscino del nonno morto poche settimane prima. Ne ricordo ancora la forma concava intonsa, se non ancora calda, proprio sotto alla sua foto incorniciata. Mi spiegano che sono il primo a sedermi sul suo angolo di casa preferito e che questo avrebbe posto fine al periodo di lutto; poi cominciano a fotografarmi e i flash mi accecano, nemmeno fossi una star di Hollywood.

Comincia la festa: musica locale a palla. Dicono che il rock non è mai arrivato lì e ammetto di fare fatica a crederci, poi continuo a stupirmi apprendendo che ragazzi di 15 – 16 anni non hanno mai sentito parlare di Beatles e Rolling Stones. La serata scorre tra balli e fiumi di the fino al ritorno. Ci offrono di accompagnarci all´hotel, scortandoci per la più lunga passeggiata del viaggio in Iran. Tre ore di cammino ci fanno fare, quasi gli spiacesse non vederci più. Alla fine del surreale dedalo siamo ancora costretti a prendere in mano la situazione, puntiamo a nord, in pochi minuti arriviamo a destinazione e li ringraziamo per la bella serata.

Al mattino si parte per Shiraz. Il vecchio dell’Hotel prova a estorcere una tassa di qualche dollaro perché abbiamo utilizzato il bagno della hall ma il tempo dei giochi è finito. Lo trattiamo a male parole, anche per le sue entrate a sorpresa notturne, e lo molliamo lì a boffonchiare nel suo farsi.

Il taxi parte ma non è finita. Una moto ci affianca. Due uomini con caschetto ci fanno strani gesti, sembrano minacciosi. Urliamo al taxi di accelerare ma loro ci stanno alle calcagna, e quello dietro dà colpi al finestrino. È un assalto alla diligenza. Poi un semaforo diventa maledettamente rosso e il taxi si ferma. La moto ci raggiunge, affianca l´auto e proprio prima del verde ci lancia dal finestrino una borsa di nylon.

Era un sacchetto lercio, pieno di cartoline e souvenir che avevamo dimenticato nell’albergo durante la discussione con il vecchio, i due erano clienti che si erano accorti della nostra dimenticanza e il loro gesto chiarisce ancora una volta lo spirito del luogo; riusciamo a ringraziarli, per merito loro l’ultimo ricordo di Yazdsarà per sempre positivo!

Shirazè una città elegante, ricca di rose, giardini e patria di poeti e scrittori iraniani tra i più celebri, ma a noi interessano le tombe di Ciro e Dario nelle vicinanze. Per questo chiediamo al solito taxista di farci da guida e scopriamo un’altra persona deliziosa che per un giorno ci è stata amica. Il baffuto driver è un signore sempre sudato e grassoccio, timido e cortese che spiaccica qualche parola in inglese per raccontarci poche cose sui monumenti ma molte sulla sua vita.

È sposato, guadagna il giusto e ha paura del futuro per la situazione del Paese. Spiega che sarebbe disponibile a cambiare qualche dollaro, utile come investimento, ma di dover chiedere alla moglie il permesso e ci propone di passare il pomeriggio a casa sua. Durante il tragitto Laura si addormenta in auto e il chadorfloreale cucito dalla zia torinese (pare, senza saperlo, avesse usato un motivo tipico del Belucistan come ci aveva spiegato una delle pallavoliste a Isfahan) le si sfila lasciando scorrere un ciuffo ribelle di capelli sulla spalla. Il taxista prova a spiegarmi che dovrei preoccuparmi di rimetterglieli a posto ma conoscendola faccio finta di non capire. Poi uno scossone, il velo si apre del tutto e alla vista di quel metro di capelli biondi l´omino pare sbandare: si ferma al margine della strada e mi chiede con fermezza di rimediare. Pur pensando all’esagerazione di un bigotto, sveglio Laura e la prego di rimettersi in ordine la chioma; mi becco dell´Imam ma accetta e si riparte. L´uomo spiega poi che avrebbe rischiato se lo avessero incrociato i temibili pasdarane facciamo finta di credergli. Mai avremmo pensato che avesse le sue buone ragioni: ce ne saremmo purtroppo accorti di lì a pochi giorni.

Arriviamo a destinazione in una bella casetta alla periferia della città, il taxista, dopo aver telefonato alla moglie da una cabina, ci accoglie con la famiglia nella sua dimora. Lasciamo le scarpe all’uscio e beviamo il tradizionale infuso locale.

Capiamo subito che in quella casa, velo o no, è la moglie che comanda. Lei conduce il discorso, le trattative e il tono della discussione. Ogni singola argomentazione viene vagliata da quella elegante signora di mezza età tanto che, al momento del solito cambio dollari riesce ad essere più arcigna dello strozzino di Yazd. Dobbiamo fare finta di andarcene offesi per farle alzare il prezzo ma alla fine siamo tutti contenti, noi e la sua famiglia.

A questo proposito è da sottolineare che la fase del cambio, almeno in quel contesto, con soldi contati e giorni di viaggio davanti era una operazione delicata, ma veniva condotta sempre con regole condivise e gusto degli affari propria dei paesi medio orientali. Cominciavamo a entrare nel loro modo di ragionare e ciò ci sarebbe stato molto, molto utile nei giorni seguenti. Dopo aver rifiutato un invito a cena che ci avrebbe impedito di visitare la città ci facciamo riaccompagnare in centro. Il caldo è opprimente e prendiamo esempio dai locali che nel primo pomeriggio, l´ora della siesta, spariscono letteralmente.Shirazsi svuota come in una serata di campionati mondiali in Italia, e la poca gente che rimane per le strade si rintana in panchine nascoste da cespugli al riparo dalla canicola. Ci sediamo sotto un albero e aspettiamo che la temperatura cali dopo aver riempito le borracce in una delle innumerevoli fontane che in Iran fanno parte del paesaggio. Sono vere e proprie strutture in mattoni dotate di rubinetti e con tanto di lavandini che sfruttano le ricche falde acquifere dell´altipiano e che distribuiscono ottima acqua fresca, vera ricchezza sotterranea del Paese, sicuramente molto più del petrolio in mano a pochi eletti.

Kermanè la città ponte per raggiungereBam, la fortezza più affascinante del medioriente, location perfetta scelta da Valerio Zurliniper il film tratto da Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari. Scegliamo un albergo fra i più moderni, con il direttore che ci accoglie in modo molto amichevole. Poi ci facciamo la solita passeggiata di ricognizione, pochi passi prima di andare a dormire, il tempo per visitare un paio di negozi di tappeti che sembrano più eleganti che in altri luoghi visti fino a quel momento, almeno quanto a Isfahan.

Al mattino prendiamo il solito bus che ci porta in un paio d´ore alla Fortezza. Ricordo il paffuto autista, barba sudaticcia di tre giorni, che mastica pistacchi con la buccia e poi periodicamente li risputa fragorosamente dal finestrino con forme simili a palline da ping pong. Porta i figli con sé e anche loro non sono da meno per eleganza. Ne osserviamo uno che ci fissa e stacca acini d’uva dal grappolo con i piedi e poi li passa alla mano e ancora alla bocca. La moglie invece allatta accanto a noi e ci sorride. Siamo gli unici a scendere a Bam, ovvero a circa un paio di chilometri dal forte proprio in mezzo a una conca desertica. Siamo costretti a chiedere a tutti se è veramente il posto giusto “Bam? Bam?” Chiediamo. “Bam! Bam!” rispondono in venti ridendo. Il ragazzo ci porge dell´uva ma decliniamo cortesemente l´offerta.

Scendiamo e l´autista stende un braccio per indicarci la direzione. Arriviamo alla fortezza in una mezz’ora e sotto il sole già cocente ma ne vale la pena. Il terremoto di qualche anno dopo avrebbe distrutto uno dei gioielli del Paese, una straordinaria città fortificata sospesa nel tempo e nello spazio. La terra rossa cotta per secoli dal sole rovente rimarrà per sempre nella nostra mente, tanto più che Bamnon sarà mai più come l’abbiamo conosciuta.

Ci attardiamo nella cittadella visitata forse da 5 o 10 turisti alcuni dei quali ci filmano di nascosto, ma ormai non facciamo più caso alle stranezze locali. Nel pomeriggio decidiamo di tornare ma per troppa superficialità ci rendiamo conto che non vi sono più autobus. A Kermanl’albergo è già pagato e onestamente preferiamo tornare in un centro abitato più civile, anche per non perdere la prima partenza del mattino che ci avrebbe condotto a Mashadin circa 26 ore di viaggio. Ci rifacciamo ai vecchi metodi e proviamo a fare autostop, il che scatena un’asta al ribasso tra un paio di pick-up che vogliono accaparrarsi i “ricchi” passeggeri. Alla fine scegliamo e nel frattempo anche un paio di ragazzi, quelli con la telecamera nella fortezza, si affiancano a noi e in un inglese comprensibile ci propongono di fare a metà; alla fine patteggiamo per una ventina di dollari a testa, totale 40 dollari a coppia da pagare all’arrivo.

Si parte e siamo in quattro: io, Laura e i due studenti -così si presentano- di una fantomatica scuola di cinema. In effetti la mia passione per il cinema mi porta a parlare con loro di Kiarostamie Panahi, anche se a volte ho l’impressione di saperne più di loro, ma tant’è; imputo le loro imprecisioni alla lingua e arrivo perfino a invitarli in Italia al film festival di Torino che fanno finta di conoscere.

Laura tace, a lei non piacciono, forse perché ci hanno fatto vedere il film girato nel pomeriggio che indugia su di lei più che su merli e torrette della fortezza; o per quella fastidiosa, e poco educata, mania di parlare per lunghi tratti in farsi con l’autista e di farsi con lui grasse risate. Ne capiremo di lì a poco il motivo.

In un paio d’ore arriviamo all’hotel e mentre paghiamo i nostri 40 dollari l’autista cambia le carte in tavola e ce ne chiede 160. Sostiene che il prezzo era di 80 per persona e i due lo spalleggiano trasformando i sorrisi di cortesia in smorfie accusatrici. Fanno una scenata proprio di fronte all’albergo ma ci trovano in un momento sbagliato. Sarà che il viaggio ci aveva già riservato sorprese ben più serie o che i due sembravano troppo furbi e di buona famiglia per superare un certo limite, ma quando cominciamo a ripetere la frase magica “Now we call the police” i loro visi sbiancano. Cercano di trattare, solo l´autista non cede e ci chiede almeno qualche dollaro in più ma alla seconda minaccia e al gesto di chiedere il telefono alla reception, i due pivelli si dileguano e il terzo si trova in difficoltà, ovviamente circondato da un nugolo di curiosi che non chiedevano di meglio che una bella rissa per chiudere la giornata. Gli lanciamo i suoi 40 dollari appallottolati in macchina e lui capisce che è meglio cambiare aria, senza sapere che la polizia non l´avremmo mai chiamata, almeno per così poco.

Dopo una giornata così impegnativa decidiamo di mangiare nel ristorante dell’hotel e incrociamo un gruppo di turisti spagnoli. Forse per l´atmosfera “latina” o per l’esclusiva presenza dei turisti in sala, le donne si consultano fra di loro, poi si scambiano un cenno col direttore compiacente, e si sciolgono il velo: dopo giorni di costrizione -e clima torrido- riapprezzano la libertà dei capelli al vento ed è come se si mettessero in topless in una pizzeria di piazza Navona, un gesto semplice ma al contempo “scandaloso”, specie se rapportato alle regole imposte dallo Stato Islamico; emozione che la dice lunga sull’oscurantismo che qui si respira quotidianamente. Anche per noi ometti sembra un giorno di festa: ci portano delle birre gelate e la fine dell’astinenza da alcol mi dà un brivido di emozione. Almeno fino a quando mi accorgo che si tratta solo di una bevanda analcolica a base di grano. Gradi alcolici? Meno di zero. Ma un’illusione momentanea è sufficiente a gustarmela come se fosse l’ultima doppio malto dell’umanità.

Non sappiamo ancora che quello sarà l´ultimo momento di serenità in Iran anche se mancano ancora 4 giorni al ritorno.

Mashadè la città sacra più importante del Paese, una delle più importanti dell’Islam: ultima tappa di un viaggio indimenticabile.

Per arrivarci scegliamo come al solito un bus dellaSaero Safar, la compagnia migliore sulla piazza. Le 20 ore di viaggio sono troppe per stare scomodi e abbiamo bisogno di dormire. Come al solito lasciamo i bagagli nella stiva e si parte.

Il viaggio è lungo ma le ore di luce le passiamo ad ammirare le catene montuose che si susseguono intervallate da villaggi e casette sparse, con soste di mezz’ora ogni tre. Ormai si paga come i locali, sebbene la prassi sia di chiedere ai turisti un prezzo moltiplicato per 10. Come se non bastasse abbiamo finalmente imparato i numeri farsi e il prezzo di patatine e Pipi Cola(la meravigliosa bevanda -nonostante il nome- simil Cola che ci ha rinfrescato più volte al giorno) ce lo facciamo da noi leggendo semplicemente il prezzo sull’etichetta.

All’imbrunire lo spettacolo diventa sublime con sole e luna piena a distanza di pochi gradi che si rincorrono fino a perdersi dietro alle creste rosse delle montagne. Sembrano inseguirsi per l’eternità e quell’immagine entra subito nella top tendi sempre.

Ci addormentiamo ed entriamo in una situazione onirica, in tutti i sensi. Un posto di blocco nel cuore della notte, in un luogo imprecisato a qualche centinaia di chilometri dall’arrivo. Il giovane steward che fino a poco prima si era rintanato a dormire nel bagagliaio dell´autobus, fra bagagli e riserve d’acqua e di the, raggiungibile da una piccola botola situata al centro del bus, mi sveglia e mi fa scendere. Ricordo poco, ma alcuni militari -uno di questi veramente brutto, barba incolta e pochi denti- mi sfotte con la guida, imitando il mio modo di parlare e mi controllano il passaporto. Poi mi fanno trovare lo zaino a terra e se lo fanno aprire. Pare tutto a posto e mi fanno risalire. Poco dopo mi riaddormento fino all’arrivo nella stazione di Mashad.

Ci rechiamo subito all’albergo principale che brulica di turisti ma niente da fare, pare sia tutto esaurito. Non ci stupiamo e proviamo con il secondo. Poi un terzo e un quarto fino a che le stelle Michelin calano paurosamente. Ci riteniamo fortunati a trovare posto in una piccola pensione appena fuori dalla zona turistica dove ci rintaniamo, nonostante i ceffi alla reception, ma al momento non ci facciamo caso.

Qui dovremo passare le prossime quattro notti e ne approfittiamo per rifare i bagagli.Un borsello in velluto rosso, la nostra cassetta di sicurezza, appare manomesso e ci rendiamo conto che dentro non c’è più nemmeno l’ombra del nostro piccolo tesoretto: 800 dollari, frutto di miracolose economie. Cerchiamo di analizzare la situazione ma dopo 10 giorni di schermaglie la risposta è una soltanto: combattere. Anche solo per principio.Decidiamo così di denunciarne la sparizione alla centrale di polizia adiacente alla stazione degli autobus; una scelta più volte ripensata in quei giorni, ma mai rimpianta per il finale assurdo e surreale della vicenda.

Martedì, H. 13. La denuncia.

E fu così che i nostri eroi si trovarono immischiati in una delle più assurde situazioni della loro vita, talmente ricca di episodi e particolari da rimanere impressa come un film, per gli anni a venire. La saletta del commissariato è angusta. Fa caldo e il ventilatore a pale non fa che rimescolare per la stanza l’aria umida e gassosa. Il “maresciallo”, il più alto in grado intendo, è un tipo trasandato, barba incolta, piccolo e grassoccio e sulla sua testa lucida di sudore ci si può specchiare. Non capisce nulla di quello che diciamo e fa chiamare un suo collega che ci ricorda talmente Ugo Proietti che lo soprannominiamo subito commissario Rocca; nemmeno lui va forte in inglese. Un terzo uomo, presente fin da subito, capisce ancora meno degli altri ma continua a sorriderci, pur senza un terzo dei suoi denti, e prova a tranquillizzarci con interminabili sfilze di Inshallah.

Nessuno pare afferrare la situazione fin quando vediamo un ragazzo magro e zoppicante che pare tra i pochi lì intorno a masticare l’inglese. In realtà è un bigliettaio di una delle compagnie locali e, come gli capita talvolta al bisogno, si presta amichevolmente a collaborare con i poliziotti con la sua traduzione simultanea.

“Vorremmo denunciare un furto”, cominciamo. “Circa 800 dollari sottratti da uno zaino sistemato nella stiva del bus proveniente da Kerman”. Il maresciallo prima ascolta con attenzione poi si alza di scatto e comincia a girare nervosamente per la stanza dimenandosi e urlando frasi -ovviamente- incomprensibili. Capiamo solo alcune delle parole ripetute ossessivamente per lunghissimi minuti. “Irani Republic” ripete tra una frase e l’altra e senza nemmeno rivolgersi a noi continua nella sua litania. Moussavi, il “traduttore”, perfetto sosia olivastro di Sammy Davis jr. anche nel fisico minuto e un po’ disassato, ci spiega che l’agente si sente disonorato dai suoi concittadini  e promette di darsi da fare per trovare i soldi e in particolare trova inconcepibile che l’Iran possa essere infangato da un ladruncolo, soprattutto con turisti che poi avrebbero contribuito a svergognare il Paese all’estero.

Dopo la piazzata, anche questa trasudante di Inshalla, prende il telefono e comunica la denuncia personalmente al Tribunale della Città. Ce lo spiegherà successivamente, invitandoci caldamente a tornare in albergo e a rimanerci per le ore a seguire, in attesa di ulteriori comunicazioni. Così facciamo. Il percorso che ripercorreremo più volte sotto la canicola è di circa un miglio e sarà praticamente l’unica via di Mashad che riusciremo a “visitare”, da lì alla fine del viaggio.

In albergo troviamo un’accoglienza ancora più fredda del solito, a tratti sprezzante: e dire che i due ragazzi che gestiscono la reception appaiono giovani e “moderni” ma tant’è, è evidente che per qualche motivo non andiamo loro a genio. Mentre aspettiamo di ritirare la chiave incontriamo un signore elegante, socievole, sui 50 anni o poco più, che come in mille altre occasioni ci nota e ci tempesta di domande. È un militare, veniamo a sapere, un graduato dell’aeronautica iraniana che è lì con la famiglia per trascorrere le sue vacanze, proprio nella stanza sotto alla nostra. Facciamo un’allusione ironica alla simpatia del personale e lui ci spiega il motivo cui fino a quel momento non avevamo dato peso. Mashad è sì una città turistica, ma di spiccata accezione religiosa. Noi siamo palesemente fuori posto e ci dice di considerarci fortunati di aver trovato una sistemazione dignitosa in cui vivere per quei giorni. Non mi capacito ma mi adeguo, e almeno capisco quella mattinata trascorsa a mendicare una sistemazione.

In stanza abbiamo la sensazione di trovare qualcosa fuori posto ma la paranoia incombe e decidiamo di non farci assalire da sospetti oltre il lecito.

Ore 16.  La convocazione

Uno dei “cordiali” avventori bussa alla porta e ci chiede, probabilmente ci intima, di scendere: la polizia ci sta cercando. Sembra contento, forse sperava ci portassero dentro. Scendiamo, e il commissario Rocca ci saluta con veemente cortesia. Ci fa salire su un taxi e ci accompagna fin davanti alla questura. Qui non facciamo in tempo a capire le modalità di quella così frettolosa traduzione che un altro poliziotto apre la portiera posteriore e si infila accompagnato da due personaggi che già conosciamo: l’autista e il ragazzo tuttofare del bus. Sono ammanettati. E pure discretamente incazzati. Per tutto il viaggio, da centrale a tribunale, in due davanti e quattro dietro, urlano e si dimenano invocando Allah e mostrandomi i ceppi. Io rispondo gesticolando e insultandoli in italiano. Così siamo pari.

Il tribunale è un edificio di stampo vagamente neoclassico, con le sue brave colonne e l’austera scalinata. Gli ingressi, divisi rigorosamente tra uomini e donne, si distinguono per le tende nere riservate alle signore, nel caso vi fosse bisogno di perquisizioni. Seguiamo il militare attraverso scale e corridoi e a ogni stanza ci sentiamo osservati e seguiti da un fitto e crescente bisbigliare degli impiegati. Ci rendiamo improvvisamente conto che un’aula di tribunale ci attende e un paio d’inservienti ci fanno accomodare in prima fila, al centro della sala, proprio dietro una balaustra. Alla nostra sinistra, accompagnati da un paio di militari, si piazzano i due imputati e la sala comincia a gremirsi dei soliti curiosi perditempo cui siamo ormai abituati. Pochi minuti, giusto il tempo di osservare l’aula, dominata dalle solite gigantografie di K&K, che un funzionario annuncia l’ingresso dei giudici. Due figure incedono maestose. Bianco il turbante, bianca la tunica, bianche le barbe: perfetti cloni dell’ayatollah di turno: cancelliere e giudice (il più anziano) si siedono e fanno accomodare gli astanti; il processo ha inizio.

Durante le incomprensibili cantilene di rito ci si avvicina un signore tarchiato che ci farà da interprete: è un gelataio, si trova lì per una sua causa vecchia di una decina d’anni, e subito viene incaricato dalla corte a farci da interprete dopo aver chiesto all’aula se ci fosse qualcuno in grado di prestare quel servizio.

La situazione è surreale, quasi cristallizzata. La seduta durerà pochi minuti, il tempo per raccontare i fatti delle ultime 48 ore sottolineando di non aver mai pensato di accusare quei due poveretti (i sospetti gravavano piuttosto sui militari del blocco notturno) e per aggiornare il processo al pomeriggio del giorno seguente. Nel frattempo scopriamo che gli imputati avrebbero passato la notte in cella, e questo non rendeva felici loro né sereni noi, intravedendo la situazione complicarsi sensibilmente dopo essere stati invitati come nei migliori noir a “non allontanarci dalla città”.

Poco dopo eravamo già in auto, diretti verso l’albergo: il tempo di mangiare un boccone e, finalmente, andare a riposare. Non prima di aver notato che un signore alto e con i baffetti ci stava seguendo a distanza e che tutti i nostri bagagli erano stati rovistati durante la nostra assenza.

Mercoledì. Sveglia all’alba.

La giornata comincia presto e male, verso le 4 del mattino. La serratura scatta ed entrano in tre, senza tante storie: le due vecchie conoscenze della reception e l’uomo con i baffetti. Comincia a fare domande, in inglese cantilenante e ripetendo sempre la stessa litania. “Quanto avevate? Dove erano sistemati i soldi? Quando vi siete accorti del furto?” Le domande sono insistenti, ma evidentemente riusciamo a essere convincenti perché con lo stesso tono rispondiamo in loop per una buona mezz’ora. In compenso veniamo a sapere che l’uomo fa parte del “Ministero del Turismo” (almeno così dice) e che ci sta seguendo fin dal nostro arrivo a Mashad, sempre a suo dire, “per la nostra sicurezza”. Si chiama Aziz. Lo rivedremo spesso.

Il tempo per riposare ancora un paio d’ore e dopo una breve colazione decidiamo di avvicinarci in anticipo alla stazione di polizia in attesa della “traduzione”, per salutare e ringraziare il buon Moussavi. Alla stazione degli autobus sembriamo già di casa, e come al solito, appena arrivati, un nugolo di barbe ci circonda scortandoci verso il piccolo iraniano che conoscendo l’inglese piuttosto bene si godeva quella sorta di aura di rispetto tipica di chi detiene il potere della conoscenza. Ma dopo un brevissimo aggiornamento reciproco –giusto il tempo per farci invitare a casa del bigliettaio la sera seguente- ecco avvicinarsi il commissario Rocca che ci aveva notato dalla finestra del suo ufficio per offrirci gentilmente un passaggio fino al palazzo di giustizia. L’affare si stava complicando e il gioco stava trasformandosi in un piccolo incubo.

Decidiamo pertanto di fare quello che per molti sarebbe stato il primo passo: avvertire l’Ambasciata italiana a Teheran!

Luogo: una cabina telefonica di fronte all’hotel. Inquadratura: una pila di monete sul telefono a gettoni lunga come un caricatore de Il Mucchio Selvaggio. Particolare: componiamo il numero.

L’uomo dell’ambasciata risponde: “Pronto”.

Io: “Buongiorno, siamo due turisti italiani… il furto… la denuncia… il processo…”.

L’uomo dall’altro capo del telefono mi interrompe bruscamente e inveisce in tono crescente: “Macché ddite… Dove siete? Voi siete matti. Ce dovevate chiamà subbito”.

Io: “Grazie, facciamo da noi”. Clock.

Avevamo già i nostri bei problemi, meglio andare fino in fondo con le nostre forze che affidarsi a un bisbetico funzionario capitolino…

  1. 16.00 La seconda udienza

Quel giorno scoprimmo di essere diventati delle star. L’aula era già stracolma e subito notiamo Moussavi e il gelataio che ci fanno da guardaspalle dividendosi l’orgoglio della nostra amicizia, oltre all’ormai sempre presente, grassoccio Aziz che continuava a fissarci e a inclinare ripetutamente il capo con viscido ossequio. Gli imputati sono già lì, accompagnati da due avvocati arrivati nella notte da Teheran per conto della Saero Safar che ci stordiscono di sorrisi e salamelecchi. La corte fa il suo ingresso e dopo le solite manfrine ci comunica di aver provveduto ad assegnarci un interprete. Non proprio italiano, ma era il meglio che potevano offrirci. Si trattava di un console iraniano che era di stanza in Spagna e che in quei giorni si trovava in vacanza nel suo Paese. Un tipo ambiguo ma colto che ci avrebbe invitato in un bellissimo locale all’aperto di Mashad a fumare il narghilè quella sera stessa.

L’udienza si apre con un discorso del giudice Aghasi il quale spiega ai presenti che il caso è grave perché: “Rubare ai turisti non è uno scherzo”. Spiega che da almeno 24 ore le forze di polizia erano state incaricate di svolgere indagini accurate, perfino al posto di blocco dell’esercito di cui avevamo parlato il giorno prima. Poi comunica che “eccezionalmente” il “caso” dovrà risolversi entro il giorno dopo, per evitare di dover rimandare il nostro volo di ritorno.

E finalmente la parola va alla difesa. Uno dei due avvocati entra nel ruolo inarcando la schiena come un galletto, poi si guadagna il centro della scena. Non so se per il pubblico numeroso, o per il fatto di essere, dopotutto, a libro paga di un’azienda dell’ex presidente dell’Iran nonché capo dell’opposizione, tant’è, il Taormina persiano comincia a dimenarsi e a recitare uno spettacolino tutto suo. Tra un gesto e l’altro, mi si traduce all’orecchio quello che sta dicendo. “Ci vogliamo davvero fidare di questi due? La nostra compagnia dà lavoro soltanto a persone fidate…”, bla bla bla. Ma il console sembra tradurci solo un decimo di quanto percepisco, soprattutto quando il piccolo uomo ci punta ripetutamente in faccia il suo ditino. Fortunatamente, il gelataio che veglia su di noi mi rivela il resto. “Sta dicendo che se non siete disonesti allora siete due cretini… farvi rubare dei soldi così è da stupidi e voi lo siete…”.

Una piccola scossa elettrica mi percorre la spina dorsale risalendo su su, fino ai capelli e fissando il giudice, alzo la mano, come a scuola. Aghasi lascia tradire una piega sotto le folte barbe e mi fa un cenno impercettibile. “Ho capito” mi comunica telepaticamente… “Adesso ti faccio replicare. Sfogati pure”. Può anche darsi che “sfogati pure” non sia stato esattamente quello che il giudice intendeva ma così andò.

Come un esperto direttore d’orchestra Aghasi alzò un braccio per quietare l’uomo e prolungandone teatralmente il movimento fino alla punta dell’indice mi diede la parola mandandolo a posto come uno scolaro particolarmente pedante.

Il silenzio si fece profondo e irreale.

Decido lì per lì di parlare in inglese: meglio evitare traduzioni farlocche del losco console… “Al di là del fatto che noi non vogliamo credere che i due imputati siano colpevoli, il vero problema è che scegliere la vostra compagnia (e punto loro il dito con gusto per la prima volta) per un turista è un atto di rispetto al vostro presidente e al vostro Paese. Noi sappiamo chi è il vostro capo e non crediamo meriti una cattiva pubblicità in giro per il mondo… Né che due dei suoi avvocati insultino dei turisti in quel modo (secondo dito) sperando di passarla liscia. For us the Saero Safari is a bank… For us the Saero Safari is a bank… FOR US THE SAERO SAFARI IS A BANK…”. Lo declamo alzando la voce e avvitando il dito sempre più furiosamente contro l’arrogante azzeccagarbugli che forse non si aspettava una tale reazione da parte dello “stupido” turista…

Un po’ perché il climax era stato raggiunto a dovere, e soprattutto perché il mio vocabolario inglese aveva esaurito le 150 parole note, mi quietai con un gassmaniano “Grazie per l’attenzione”, sedendomi con misurata lentezza.

Il silenzio che ne venne dopo risuonò per qualche secondo, almeno nella mia testa, e finalmente il giudice prese la parola. Nella mattinata di venerdì avrebbe emesso il suo verdetto definitivo.

Il tempo per incassare due inviti, a cena da parte di Moussavi e a pranzo dal gelataio, e via di corsa tra i brusii soddisfatti dell’uditorio a riposare in albergo. Noi. Gli altri in cella.

Solo il giorno seguente avremmo saputo che in sala si trovavano un giornalista e un fotografo del quotidiano Koz, il quotidiano portavoce della destra religiosa più conservatrice del Paese, evidentemente interessati a quello strano caso di politica internazionale.

E di “strategie” processuali, oltre che di cinema e calcio, avremmo parlato a lungo la sera stessa con il funzionario governativo, di fronte al fiume in compagnia di un buon narghilè alla mela, in una serata rilassante e sotto le stelle. E sarà proprio in queIl’occasione che il console ci descriverà anche la figura del giudice Aghasi. “E’ il veterano del tribunale, noto per la sua severità permeata da buon senso e moderazione”. Dice che gli siamo simpatici, ma ci fa capire che i controlli in albergo e le assillanti domande del misterioso uomo dai baffetti neri, al servizio del tribunale, gli erano servite per valutarci e per essere certo della nostra buona fede.

Giovedì.

A Mashad avevamo pensato di trascorrere 5 giorni di svago. Una delle Moschee più importanti della regione, per alcuni la seconda per importanza dopo La Mecca, sarebbe stata il centro delle nostre attenzioni e mai avremmo pensato di aver conosciuto i locali del tribunale meglio di qualsiasi altro monumento cittadino.

Il santuario dell’Imam Reza, insieme ai magnifici siti di interesse storico e artistico che lo circondano, fa parte del complesso di Astan-è Ghods Razavi, e costituisce una delle meraviglie del mondo islamico. Peccato che per visitare lo zarih, ovvero la tomba, dell’ottavo imam degli Sciiti, l’unico sepolto in territorio iraniano, l’accesso sia interdetto ai turisti di non provata fede islamica, ma ce ne facciamo una ragione. Dopotutto avevamo già visitato parecchie moschee e avevamo altri problemi di cui occuparci prima di incastrarci in un’altra situazione a rischio.

Pertanto, passiamo la giornata tra un bazar e l’altro, tanto per bighellonare in attesa di recarci a casa del bigliettaio/traduttore Moussavi.

Verso sera prendiamo un taxi consegnandogli il biglietto con l’indirizzo del nostro ospite; quasi un’ora d’auto e arriviamo a casa di Moussavi e della sua seconda moglie per un altro dei (pochi) momenti piacevoli di quei maledetti e frenetici giorni.

La cena è deliziosamente servita su un Bukara antico, il kebab è ottimo e la compagnia ancora di più. Tra i racconti più interessanti ricordo quello in cui Moussavi spiega la sua menomazione, dovuta a una fucilata mentre era al fronte durante la guerra contro l’Iraq. E successivamente ricorda malinconicamente di come la sua prima moglie lo rinnegò proprio sulla porta della sua stanza d’ospedale, senza nemmeno avvicinarvisi. Lo aveva disconosciuto, formalmente, accompagnata dai suoi due fratelli, tramite una formula rituale consentita dal Corano nel momento in cui lui era quasi certo di perdere la gamba e, conseguentemente, la possibilità di lavorare e di mantenerla. Ne parla brevemente, e in inglese, confessando di tradurre in farsi cose diverse alla moglie attuale, per non ferirla e non farla ingelosire.

La serata scorre piacevolmente e alla fine ci diamo appuntamento per le 10 del mattino al “solito” posto.

  1. 22. Casa dolce casa

Il taxi ci lascia a un isolato dall’hotel dove ci dirigiamo senza deviazioni. Ma la serata non era ancora finita.

Un’ombra, una spallata, due mani ossute contro la schiena e una ginocchiata sulla coscia. In un attimo mi trovo contro un muro di mattoni. Due lugubri ragazzotti mi strillano nei timpani finché sono colti dal lieve dubbio, bontà loro, che non sono iraniano. Sarà per la barba incolta e la lieve abbronzatura, ma ripetere “We are tourist” all’infinito non li convince del tutto. Non si fidano e non si accontentano della carta d’identità italiana che avevo in tasca, vogliono il passaporto.

Appaiono come l’immagine tetra di un Hipster, vestiti di nero, dolcevita modello esistenzialista, con barbe perfettamente sagomate, sguardo torvo e pelle liscia, assolutamente metrosex. Sono i “pasdaran”, i Guardiani della Rivoluzione, la vera polizia religiosa che tutto controlla e tutto sa. Alle dirette dipendenze degli Ayatollah sono le tetre sentinelle della moralità che in Iran, a tutt’oggi, fanno davvero paura.

Mi accusano senza mezzi termini di accompagnarmi a una prostituta. E’ bionda e proviene sicuramente da un paese ex sovietico, ce ne sono molte in Iran. Ma a Mashad no, lì non è cosa. La tomba dell’Imam fa della loro città la più pura dell’intera nazione (insieme a Qom) e la loro presenza è massiccia e asfissiante. Decidono pertanto di scortarci all’hotel per assicurarsi definitivamente della nostra identità.

Dalla padella alla brace. Ai nostri fottutissimi albergatori non pareva vero di metterci nei guai e senza tante storie consegnano i papelli alle guardie imperiali, nonostante le nostre rimostranze. Come se non bastasse decidono di tenersi i passaporti per ulteriori controlli nei giorni successivi. Non se ne parla, pensiamo, ma la situazione da stallo diventa tesa e senza apparente via d’uscita. Ed ecco l’unica scorciatoia possibile: appellarci all’esercito. In senso lato ovviamente.

Lascio Laura di sotto e mi precipito alla stanza al primo piano, quella del militare conosciuto un paio di giorni prima.

Busso forte. “Open Please! Open please. We need your help” finché, un uomo in camicia da notte a righe mi apre la porta per quel tanto che bastava per intravedere l’interno della stanza con usi e costumi locali: valige sul letto e moglie figli che dormivano sui tappeti.

Chiedo perdono per l’intrusione ma lo prego fermamente di scendere. L’uomo non pare felice di vedermi ma quando gli spiego sommariamente il problema mi chiede qualche minuto per vestirsi e acconsente alle mie suppliche. E come promesso, da quella scaletta in marmo chiaro, i “nostri” arrivarono di lì a poco.

Ora, riflettendo a posteriori, in quella stanza c’era tutto ciò su cui il cinema si fonda. Unità di spazio; suspence; gli eroi per caso; il duello; le figure simboliche. In particolare, queste ultime erano degne di un film di Tanovice rappresentavano tre classi importanti classi della società iraniana: popolo, esercito e potere religioso, tutte con interessi diversi e, nello stesso tempo, in equilibrio perfetto. E proprio grazie all’”esercito” ci vediamo riconsegnare i passaporti che peraltro, altra piccola soddisfazione, non concediamo più in custodia agli albergatori, vista la scorrettezza formale di poco prima.

Compiuto l’atto di alta ambasciata, dopo un’estenuante trattativa diplomatica, il nostro eroe ci saluta con una raccomandazione. “Non fate arrabbiare quella gente… io stesso di fronte ai  Guardiani conto molto poco nonostante il mio ruolo nell’esercito… questa volta vi è andata bene, la prossima, turisti o no, ve la faranno trovare lunga…”.

Venerdì: h 10.00. È giustizia per tutti

Percorremmo quel maledetto miglio fino al tribunale con fatalistico disincanto. Finalmente decidiamo di fermarci nella pasticceria che in tutti i giorni precedenti avevamo solo visto distrattamente e ci concediamo una meravigliosa pasta alla crema di pistacchio. Poi ci avviamo al palazzaccio dove ormai ci salutano anche gli uscieri. L’aula si presenta già traboccante di un pubblico curioso e fedele, poco ci manca che ci chiedano gli autografi. In compenso due signori distinti ci chiedono di rilasciare un’intervista per il giornale in cui lavorano, “Koz” appunto, che in questo caso doveva riempire una mezza pagina di cronaca cittadino con un processo bizzarro e unico del suo genere. Ci rimandano pertanto a fine sentenza che sarebbe arrivata comunque entro qualche minuto.

C’è fermento, tra un salamelecco e l’altro con gli avvocati avversari, molto amichevoli e rispettosi per l’occasione, e scopriamo subito che tra il pubblico si siede –libero- l’autista, a debita distanza dal ragazzo, in piedi tra due soldatini. Accompagnato dai due ci saluta cordialmente e ci anticipa di essere stato scagionato. Ma la fine della storia ancora non ci è nota e non sappiamo se rallegrarcene o quant’altro.

Il tempo per sederci, incontrare Moussavi, il gelataio, il console e il grassoccio Aziz e una campanella suona per ricondurre tutti alla sacralità del momento.

E Silenzio fu.

L’ingresso è più pomposo del solito e tutti si alzano.

Le parole di Aghazi scoppiettano veloci fino alla lettura, scandita della sentenza.

“La versione dei due turisti italiani è credibile.”.

“Il ragazzo era già stato accusato di un furto qualche mese prima”.

“Le indagini sul principale sospettato continueranno senza sosta fino a raggiungimento delle prove”.

“I soldi saranno restituiti ai ragazzi sulla fiducia… A tal proposito si invitano i presenti ad anticipare il contante che verrà loro restituito dallo Stato”.

Un applauso forte ci sommerge e tutti i presenti si dispongono magicamente in un lungo biscione. Uno dei due giornalisti si autonomina contabile prende carta e penna e si mette a scrivere i nomi dei “donatori” su un’apposita ricevuta. La coda si organizza e tutti, dico tutti, mettono mano al portafogli. Dall’impiegato al curioso lasciano un loro anticipo al cassiere improvvisato, poi passano a stringerci la mano, qualcuno ci abbraccia, e su quel tavolino il mucchio continua a crescere. Una, due, quattro torri di banconote, contate e ricontate, frutto di una colletta miracolosa di tutti i presenti. Persino i due avvocati della Saero Safar si mettono in coda con un bel mazzetto di denaro in mano e ci sorridono. Lasciano il loro contributo e quando passano davanti a noi si inchinano e ci baciano la mano.

Un groppo sale alla gola. Emozione da fine stress, ma soprattutto per quella situazione, assurda e incredibile che si stava risolvendo nel più surreale e inaspettato dei modi. Un momento così denso di solidarietà ed empatia da far tremare le gambe.

Ad aula svuotata, il giudice Aghazi fa capolino e ci chiama dietro il bancone. Ci porge un libro enorme, rilegato in pelle umana mi viene da pensare, una specie di diario che apre e sul quale ci chiede una dedica. Confabuliamo su cosa scrivere e la frase maccheronica che ne esce sa di zucchero e miele ma è anche la sintesi più adeguata per quel momento. “We are happy for having meet you; we’ll remember your Country that we’ll love forever”. Amen.

I due giornalisti presenti erano rimasti ad aspettare e dopo l’intervista in cui si toccarono temi alti, come la straordinaria classe di Roberto Baggio, un commento “a caldo” sul cattolicesimo e via dicendo. Poi ci invitano a visitare la sede del giornale. Il tempo per accordarci per il pranzo del giorno dopo con il gelataio e via di corsa in taxi a fare un tour privato alle rotative di Koz, con tanto di presentazione del direttore che ci riceve nel suo ufficio e si fa fotografare con i due strani tipi venuti dall’Italia e di cui forse gli Imam leggeranno il giorno seguente.

Sabato

Come si dice, le sorprese non finiscono mai. Al mattino veniamo accolti alla reception da due vecchie conoscenze: il console spagnolo, e l’amico silenzioso Aziz. Vederli ci spaventa lì per lì, ma i due ci accolgono subito con una simpatia evidente e ci offrono una possibilità unica che non ci lasciamo sfuggire. Ci propongono di accompagnarci all’interno del santuario dell’Imam Reza, privilegio assai raro per gli ‘infedeli’ quali noi sicuramente siamo. Ma con un po’ di astuzia e molto silenzio ci dicono che non sarà affatto un problema.

Ci vestiamo adeguatamente, soprattutto Laura con un pesante drappo nero, senza quei fiorellini in campo blu, così bizzarri e irrispettosi per il Profeta… L’ingresso al maestoso tempio va subito storto; mi lascio scappare stupidamente un commento che allerta i guardiani del tempio ai tornelli, ma subito i due guardiaspalle alzano il loro lasciapassare e garantiscono per noi. La piazza marmorea è accecante, il caldo torrido da togliere il fiato. Ci dirigiamo ai due ingressi, rigorosamente divisi tra uomini e donne, che portano ai due lati opposti della tomba dell’Imam e assistiamo a uno spettacolo indimenticabile.

Nell’area maschile centinaia di uomini pregano, piangono in un silenzio irreale rotto solo da lamentazioni tanto assolute quanto universali.

Nell’area femminile, racconterà Laura, una massa di donne in nero urla e si contorce verso il fu Imam Resa. Entrambi cercano di toccare le grate che proteggono il sepolcro posto a qualche metro d’altezza scalando i corpi dei fedeli dinnanzi a loro. Scene da girone dantesco che per un destino bizzarro siamo riusciti a catturare nella memoria, ripagandoci almeno in parte per i giorni infernali che avevamo finalmente lasciato alle spalle.

Domenica

Moussavi ci aspetta con ansia alla stazione. Ha provveduto lui a riservarci i posti migliori sul bus verso Teheran; mentre ci salutiamo sappiamo che non ci vedremo mai più, anche se le solite frasi sembrano alludere a un futuro incontro. Un retro pensiero difficile da scacciare si fa sempre più intenso: “Cosa può ancora capitare?” Il bus ripercorre a ritroso il percorso verso Teheran ma questa volta gli zainetti rimangono rigorosamente incatenati ai nostri corpi.

A Teheran alloggiamo in un tranquillo albergo a poca distanza dall’aeroporto, a poche centinaia di metri dalla Torre Azadi. L’aereo per Istanbul ci attende al mattino del lunedì; il tempo di cambiare in dollari il denaro frutto della colletta e siamo al check-in. L’aereo prende il volo e sappiamo di aver abbandonato l’Iran quando, dopo il solito annuncio, tutte le donne si sciolgono il velo e lo lanciano in aria come il “tocco” nel giorno della laurea. Gioia e liberazione, ma anche nostalgia di un Paese unico che forse non rivedremo più.