toro simbolo


Nel Museo di Scienze Naturali di New York è possibile provare il brivido di toccare pezzetti di ossa di dinosauro o di pelle di mammut, con la indescrivibile sensazione di viaggiare all’indietro nel tempo. “Please touch” è la paradossale didascalia che invita il visitatore a compiere un gesto così “eversivo” da trasformarsi in approccio emotivo e conoscitivo senza pari. A Torino, in via Cavour un negozio di gelati alla spina con le pareti a strisce rosa shocking espone all’ingresso un piccolo torello con un vistoso cartellino appiccicato sulla testa. “Si prega di non toccare”, leggiamo, nemmeno si trattasse del David di Donatello; ma ciò che più disturba è il massiccio giro di volgare carta adesiva spiaccicata sulla testa del povero animale, talmente umiliato che avrebbe certamente preferito due banderillas infilate nelle scapole.
La sacralità del toro nasce da lontano e, proprio in una città che ne porta il nome, dovrebbe essere trattato con più attenzione: il Sacro Api, dopo essere stato venerato dagli Egizi, ha nel museo Egizio il suo attuale tempio laico. Un gigantesco toro sbuffante accoglie il Torino Calcio proprio sotto la curva Maratona. E nella vicina piazza San Carlo, ad un toro incastonato nel marciapiedi vengono quotidianamente calpestati gli attributi da centinaia di torinesi e turisti come gesto di buona sorte.

Accarezzare quel piccolo torello fucsia potrebbe diventare una piacevole tradizione cittadina, e al prezzo di una latta di vernice all’anno, se ne guadagnerebbe in accoglienza, umorismo e un pizzico di buon gusto.