Tra i tanti approcci critici possibili all’ultima fatica di Matteo Garrone scegliamo a modello arredi e spazi fisici, vere e proprie chiavi d’accesso simboliche a una lettura che apre a significati molto più profondi di una semplice critica al mondo della tv che “Reality” affronta in maniera lucida e spietata ma non esclusiva.

La piazza del mercato, cuore pulsante della comunità in cui il protagonista Luciano agisce principalmente, è dominata dalla statua di un Cristo e le immagini sacre -tra icone di santi, madonne, papi ed ex voto- imperversano nelle abitazioni dei compaesani. I luoghi della rappresentazione rituale non mancano, e in tutti va in onda una funzione (o meglio finzione) che genera dipendenza. Negli outlet (incastonati in strutture simili a moderni templi) si realizzano i sogni materiali, meglio se dopo una predica dell’abile venditrice. La chiesa è il luogo dell’anima, con prediche suadenti e automatiche che promettono vite migliori in cambio di bontà e devozione. E poi la grande Casa del Grande Fratello, paradiso laico dei nostri tempi, ben noto luogo di elezione, che fa sognare un riscatto sociale a generazioni perdute. Luciano è uno di questi e la sua dedizione sarà totalizzante, paranoica e premiante al di là dei suoi sogni.

Il modello del film d’altronde è esplicitato fin dalla prima sequenza, come spesso accade ai capolavori allegorici del cinema. Una lunga inquadratura dall’alto ci precipita nel mezzo di un matrimonio principesco, sperpero kitsch a meta tra il sacro e il profano, con il deus ex machina simbolico Enzo, l’eroe del grande fratello che arriva dal cielo a bordo di un elicottero; sacerdote/medium tra il mondo terreno e quello dell’etere,  suggella il matrimonio (dopo il prete) con il suo motto “don’t give up” non arrenderti, incompreso ai più ma ripetuto a gran voce, quasi come in un rosario di penitenti. Luciano ne rimane abbagliato e comincia il suo percorso da predestinato. Poco tempo dopo infatti, in seguito ad un provino per il GF (che si svolge in un supermercato), comincia un suo intimo percorso di crescita che profuma tanto di santità. Nella sua personalissima “passio” infatti, Luciano intraprende una vita di sacrifici con la spogliazione dei suoi beni (vende la pescheria, offre pasti ai mendicanti e comincia a regalare gli oggetti di casa ad una pletora di disperati) e con una serie di visioni ‘mistiche’ di fantomatici funzionari del GF che lo spierebbero
 per valutarne l’attitudine e che lo guidano in paranoiche interpretazioni delle sue azioni, alla stregua di ogni buon santo che si rispetti, perennemente osservato dal suo dio personale.
Luciano (che porta il nome di un santo eretico) insegue il suo sogno umiliandosi, inseguendo l’Enzo nazionale nelle discoteche più squallide dove si esibisce (non a caso) sospeso in aria, e lo pedina fino ai camerini attraverso i condotti fognari e parlandogli solo attraverso una spessa grata che ricorda un confessionale e che lo separa fisicamente nella sua siderale distanza. Infine, durante la via crucis papale, estrema forma di realtà rappresentata, capisce di essere veramente degno del suo “tempio” che, alla stregua di novello Truman, riesce a conquistare ben oltre il popolo eletto dei partecipanti. Lo farà in forma estatica da vero e proprio “Dio”, facendosi Occhio dopo esserne stato controllato e dominato. Dopo averne resistito le tentazioni e disvelandone il disegno originale avrà accesso al luogo più nascosto, più esclusivo e meritorio per un fedele: la testa vuota del Mago di Oz.
Reality non lascia speranze alla libertà intellettuale dell’individuo e il libero arbitrio ne esce fortemente ridimensionato: non ci resta che scegliere il nostro tempio, sembra dire il regista: chi ne sta fuori sarà pure un eroe, ma, in fondo, non esiste.