volker schlöndorff regista

“Diplomacy” mette a confronto due principi. Da una parte eseguire gli ordini come forma più alta di etica e onore. Dall’altra il giudizio morale, proprio di ogni essere umano, che deve essere assoluto e libero da ogni condizionamento. Nel film di Schlondorff viene il sospetto che il personaggio del console svedese in realtà non esista. Si muove tra le pareti, osserva attraverso uno specchio e si manifesta improvvisamente da botole improbabili. Il dubbio che si tratti di una manifestazione simbolica della coscienza del generale tedesco è forte, soprattutto pensando al tenore dei dialoghi, sempre in bilico tra disquisizione dialettica e autoanalisi.

Il finale rimette le cose a posto dal punto di vista del puro realismo, ma non cambia la sostanza allegorica di un film che non lascia tregua e fa riflettere.

In margine alla prima nazionale di “Diplomacy”, il cinema Romano di Torino ha presentato Volker Schlondorff al suo pubblico. Ho rivolto alcune domande al regista tedesco che ha introdotto il suo ultimo film esprimendo sinteticamente la sua personale idea di cinema. Ecco l’intervento integrale dell’autore, fra gli altri, di “Morte di un commesso viaggiatore”, “L’orco” e soprattutto “Il tamburo di latta”, Palma d’oro a Cannes” nel 1979, premiato ex equo con “Apocalypse now” (leggi qui).

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Maestro Volker Schlondorff buonasera. A nome del pubblico del Cinema Romano di Torino e del padrone di casa dott. Lorenzo Ventavoli, le do il benvenuto per questa prima. Ci vuole introdurre il film cui stiamo per assistere?
 Grazie sono commosso per la vostra accoglienza. Si può dire che “Diplomacy” sia un film che ho fatto contro la mia volontà. Ho una figlia di 22 anni cui tanti anni fa avevo promesso di non fare mai più un film sulla seconda guerra mondiale. Poi però mi è arrivata questa pièce di Cyril Gelye e mi sono commosso perché si trattava di Parigi e all’epoca non mi ricordavo che la città era stata a un passo dall’essere distrutta. Mi sono commosso, dicevo, perché arrivai per la prima volta a Parigi dalla Germania all’età di 16 anni, ed era la prima città non distrutta che io vedevo nella mia vita. Tutte le altre città tedesche, a partire da Francoforte, erano state bombardate, e vedere l’architettura intatta della capitale mi aveva colpito.
Dopo 50 anni dalla fine della guerra si è scoperto che il generale protagonista del mio film aveva scelto di non distruggerla e io ho pensato che se non fosse stato per la sua decisione, io nel 1950 non ci sarei mai andato. Di conseguenza è probabile che non sarei nemmeno qui stasera perché è proprio a Parigi che ho imparato a fare cinema.

 

Per queste ragioni il film è più una favola che non una ricostruzione storica. I personaggi, un console e un generale, affrontano un duello dialettico che dura una notte per poi prendere la decisione di non infierire sulla città. Il tutto è raccontato come un thriller ma si tratta più di una meditazione sulla Storia. Una riflessione su come i grandi avvenimenti possano succedere o non succedere per la scelta di un singolo uomo.
Ricordo una sua lezione di cinema, tenuta insieme al suo amico Werner Herzog in cui si percepiva un lato del suo carattere estremamente affabile, molto diverso dalla tragicità dei suoi film. La sua simpatia è anche palpabile nella sua celebre intervista a Billy Wilder. Non ha mai pensato di girare una commedia? E più in generale, da dove pesca le sue idee prima di affrontare la direzione di un film?
Come per “Diplomacy” mi arrivano proposte e mi faccio. Ispirare. Quando ho voluto fare un film di testa mia ho sempre sbagliato… gli altri mi conoscono probabilmente meglio di come mi conosco io. Per cui mi fido degli amici e questi non mi hanno mai proposto di farla. Ci ho anche provato a scriverne una con Steve Martin e con altri ma la cosa non è andata in porto. Non è il mio destino evidentemente.
E questo nonostante la mia promessa iniziale a me stesso fosse stata quella di non fare film letterari… “Voglio fare commedie” mi dicevo, ma non ho ancora mantenuto quell’impegno. Evidentemente le scelte della nostra vita sono fatte spesso al di fuori di noi.
Per quanto riguarda la definizione che spesso si fa dei miei film cosiddetti “teatrali”, ogni volta che sento la parola teatrale mi vengono i brividi ma è pur vero che gli attori bravi devono imparare la disciplina a teatro e se per teatrale si intende questo mi sta bene. Inoltre la tecnica digitale degli ultimi anni è cosi a portata di mano che tutti possono fare un film col telefonino. Io allora, per reazione, mi sono disinteressato sempre più della tecnica e mi sono sempre più lasciato affascinare dagli attori e dal loro essere veri, autentici.
Io sul set mi sento come un violinista senza violino; loro sono lo strumento e io provo ad aiutarli a farlo suonare sempre meglio. Questo è ciò che reputo debba essere il modesto lavoro di un regista.
Grazie a tutti e buona visione.

 

Intervento del 21 novembre 2014