Dopo “Tony Manero” (2008) e “Post mortem” (2010), l’ideale trilogia sulla dittatura di Pinochet di Pablo Larrain si chiude con uno strepitoso inno alla libertà e, soprattutto all’intelligenza. Le parti più oscure del potere erano già state esplorate con straordinaria lucidità dal regista nei due film precedenti: dalla morte di Allende vista attraverso le stanze cupe e scrostate di un ospedale dove si accumulano i corpi delle prime vittime del regime fino al grottesco reality dove per vincere bisogna emulare i balletti di John Travolta in un contesto sociale caratterizzato da totale assenza di principi morali e di stimoli culturali degni di tal nome.
“No” chiude il cerchio, brillantemente, attraverso il racconto di come il Paese arrivò alla insperata vittoria delle 17 (!) opposizioni –fino ad allora slegate e inconcludenti- nel referendum che avrebbe impedito la terza rielezione consecutiva a presidente del generale Pinochet. Il punto di vista è quello di un giovane pubblicitario che studia la campagna per il no, apparentemente senza alcuna possibilità di riuscita, spiazzando l’opinione pubblica e un potere troppo antiquato e supponente. Il Cile, fino ad allora tramortito da persecuzioni e ricattato dagli appoggi internazionali che lo avevano drogato di investimenti a patto di rinunciare al socialismo, si risveglia anche grazie alla capacità di far sognare un intero popolo al grido di “un NO per l’allegria”.
Alla stregua di un Don Draper latino, il giovane protagonista si batte per un paese migliore, simboleggiato da un logo solare, semplice e positivo. Un arcobaleno per il futuro che ricorda lo spot di una bibita che non a caso si chiama “Free” e che apre il film ad una speranza di libertà seppur confezionata. Il nuovo mondo che si prospetta non è perfetto, anzi. Le contraddizioni della convivenza e della riconciliazione nazionale, che avrebbero tenuto banco negli anni a venire sono riscritte dai nuovi rapporti di forza tra vittime e carnefici, non propriamente invertiti, e i sintomi di un cambiamento sociale poco appariscente sono ben visibili nelle “novelas” che continuano a parlare di soldi e potere. Ma il messaggio è chiaro laddove anche un “No” può diventare sinonimo di luce e ottimismo.
Il film è girato con cura, forse più dei precedenti. Il carrello finale è potente e sa di aria fresca, ben lontano dall’atmosfera e dagli spazi claustrofobici dei film precedenti; la fotografia riprende grana e colori dei vecchi vhs, di cui il film è infarcito, creando un effetto documentario che piano piano si impadronisce dello spettatore e che conferisce credibilità storica al film. Un’ultima annotazione riguarda gli attori, come si dice, in stato di grazia. Gael García Bernal (Babel) rappresenta bene la sfrontatezza e la rassegnazione del nuovo Cile che avanza e Alfredo Castro, attore feticcio di Lorrain, è semplicemente superbo nel suo ruolo di servitore del potere prima, e di “pari” dopo, con la consueta magnifica sgradevolezza con cui ci ha ormai abituato.
Vittorie meritate nei molti festival dunque per un film potente e sincero, talmente “educativo” da diventare utile, magari lo fosse, anche alle opposizioni di casa nostra.