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Di “Stranger Things”, la serie instant-cult ideata per Netflix dai Duffer Brothers, si è (già) detto è scritto molto. La sua peculiarità citazionistica (espediente utilizzato nel genere fanta-horror per far immedesimare lo spettatore con il protagonista) così ampiamente e ripetitivamente dibattuta nella stragrande maggioranza dei commenti è sicuramente una delle caratteristiche più riconoscibili e ovvie, ma perché stupirsene? Fin dai B-movie fantascientifici degli Anni’50 questo tipo di film aveva già detto tutto autocitando il precedente, su bambini eroi, storielle di collegiali, scienziati cattivi, comunità culturalmente anestetizzate, scettici redenti, scienziati malvagi, finali esplosivi e sempre maledettamente aperti. E ancora, creature ai confini della realtà di volta in volta combattute, nascoste in casa, sfruttate da Governi paralleli, fameliche, bavose, telepatiche o con più denti che capelli. Tutto questo ci obbligherebbe a enumerare l’intero elenco alfabetico del cinema di fantascienza dalla nascita ad oggi, ma come spiegano i sacri testi (“I figli del dottor Caligari” di Siegbert Salomon Prawer in primis), da questo genere, che lo si ami o no, questo ci si deve aspettare; niente di più e niente di meno.

In ST piuttosto, si compie un’ulteriore scatto in avanti verso ciò che Wes Craven nel genere horror aveva elevato a meta-linguaggio ovvero l’estremizzazione del citazionismo e di quella sorta di consapevolezza che il film ha di “sé”. Se negli Anni ’50 i bambini guardavano immancabilmente “Ultimatum alla terra” in tv prima di avvistare un disco volante, Craven porterà questo espediente ai massimi livelli arrivando a far apparire Freddy Krueger durante le riprese del suo settimo “Nightmare” a sua volta ispirato a “ ll gatto nel cervello” di Fulci; per non parlare di Tom Six che ne “L’uomo centipede 2” mostra le conseguenze mostruose che la visione del film precedente aveva provocato nella mente di un suo fan. In ST tutto -ma proprio tutto- è già stato visto ma, perlomeno, in maniera funzionale, senza strizzatine d’occhio esplicite, né ironia esasperata e soprattutto andando ben oltre lo sterile gioco intellettuale. Per dirla come un appassionato della saga di Raimi, in pratica, la stessa differenza che passa tra “The Evil Dead”, geniale seppur già visto, e i suoi sequel, sempre più storpiati dall’autoreferenzialità e dal gioco di specchi infinito e ridondante

Il problema allora è un altro: perché ST ha colpito al cuore di una buona fetta di mondo occidentale in questo luglio televisivamente sonnacchioso, al contrario di una miriade di prodotti e sottoprodotti di un genere perennemente dato per morto e dimostrandosi capace di stupire e eccitare menti assuefatte da stilemi rimasticati sempre uguali a se stessi? In che modo le rivisitazioni letterarie di Stephen King (“It”, “Shining”, “Stand by me”, “The mist”…), John Carpenter (“Essi vivono”, “Fog”… e tutte le sue colonne sonore), Steven Spielberg (“ET”, “Poltergeist” -da lui prodotto- “Incontri ravvicinati”…) e naturalmente Katsuhiro Ōtomo (il cui il “Numero 28” Akira -padre di tutti gli psycho-anime successivi- fornisce i fondamenti iconografici e tematici della giovane “numero 11”), in che modo -dicevo- questi autori sono stati spolpati, metabolizzati e rigenerati per la contemporaneità?

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Una cosa è certa: le fonti primarie di ST non sono i film degli Anni ’80. Al di là dell’ambientazione, e della lotta sotterranea tra chi rifiutava la cultura imperante e chi invece la cavalcava spudoratamente (i personaggi di Dustin e Jonathan sono in questo senso più che significativi), l’influenza letteraria diretta viene molto più da lontano e ha un nome preciso: Howard Phillips Lovecraft.

Lovecraft è il creatore dei miti di Cthulhu, corpo di racconti e romanzi che compose a partire dal 1917 e i cui temi sarebbero stati ricorrenti in tutte le sue opere future. Si trattava di un mondo parallelo, coincidente con il nostro ma visibile solo in alcune condizioni e in specifici “nodi”, o porte che dir si voglia. Una realtà alternativa e popolata di mostri che si manifestava soprattutto grazie a forme telepatiche -il celebre “Terzo occhio”- o all’utilizzo controllato dell’energia elettrica, da pochi decenni assurta a meraviglia della scienza che aveva influenzato la letteratura nella possibilità di riportare in vita i morti. Questo mondo era descritto come fatiscente, invaso da vegetazione e da rampicanti (di ispirazione gotica) su strutture senza tempo e apparentemente disabitate. Come se non bastasse, in alcuni racconti le entità mostruose immaginate da Lovecraft si manifestano nel mondo “reale” ma solo all’interno di muri o con bagliori diffusi.

I miti di Lovecraft, che per esplicita ammissione di Stephen King era stato il primo dei suoi ispiratori fin dall’inizio della sua carriera di scrittore, sarebbero stati ripresi in letteratura niente di meno che da Philip Dick. Lo scrittore, noto per la sua ossessione per i piani di coscienza e di realtà, nel suo romanzo “La città sostituita” immagina infatti che un uomo torni nel suo paese natale dopo molti anni e lo ritrovi diverso, cadente, polveroso e onirico. Questo “ Stato di allucinazioni” (altro film citato in ST già che ci siamo…) presupporrà una “sostituzione” della sua città da parte di una realtà sopita e gradualmente vincente su quella fisica che ci appartiene; un’altra, chiara, evidenza di ciò che in ST si descrive e che (forse) avverrà nelle prossime stagioni.

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Lovecraft fu trasposto dichiaratamente sullo schermo per poche volte (molte di più sono state le citazioni implicite) e in particolare da Brian Yuzna e Stuart Gordon. “Re-Animator” e, soprattutto “From Beyond” hanno rappresentato due fra i pochi omaggi diretti alla letteratura di Lovecraft e, ovviamente, parlano di soglie, terzo occhio, mostri sospesi in crepe della realtà e di tutto ciò di cui ST è infarcito, forse nella migliore riduzione che lo scrittore di Providence avrebbe mai potuto immaginare. Almeno prima della creazione dei fratelli Duffer.

Parlando di piani di realtà, in quel caso meta-cinematografici, avevo già rilevato il proliferare di attenzione mediatica verso prodotti cine-televisivi sempre più lontani dal racconto classico. Fiction come “The Jinx”, “The Affair”, e gli stessi “Taxi Teheran” e “Birdman” solo per citare i lavori più noti e premiati degli ultimi anni, ci avevano introdotto in realtà sempre più rarefatte definibili come una sorta di “Terra di mezzo” e tal proposito è sempre attuale quella meravigliosa metafora coniata da Umberto Eco nel suo “Kant è l’ornitorinco”. Qui il semiologo bolognese chiariva come la ragione tenda a reagire a un fenomeno sconosciuto inquadrandolo in schemi già noti, ma che di fronte a eventi inesplicabili, a metà tra categorie conosciute, sia necessario superare queste barriere per non incorrere in plateali errori di comprensione o di classificazione. Per spiegare meglio questo concetto, Eco prendeva a esempio il bizzarro animale australiano, scoperto a fine Settecento e scambiato di volta in volta dai naturalisti per pesce, anfibio, mammifero…

E il paradosso dell’ornitorinco ben si presta a rappresentare il limes, quell’ineffabile spazio che separa tutti i mondi paralleli rappresentati in ST e sbarrati oltre che da soglie fisiche e percorribili, da preconcetti di svariate nature. Preconcetti della ragione, poco battibili da chi non disponga le proprie convinzioni a una maggiore apertura verso una diversa, più inesplicabile e sovrannaturale, forma di realtà; preconcetti riguardanti le differenti generazioni, che risulteranno vincenti solo se unite da solidale collaborazione; di ruolo sociale, dove poliziotti collaborano con i sospetti e professori illuminati si mettono a disposizione dei loro più brillanti allievi anche nei loro giorni liberi; e naturalmente di affinità elettive, dove lo “sfigato” e il “fico” non possono che aiutarsi a vicenda, pena l’annichilimento di entrambi.

Dinamica degli opposti dunque: bene male e soprattutto esistente non-esistente. Uno stato di surreale dormiveglia da “Eyes wide shut” che in ST è rappresentato dalla pulce sospesa tra il sopra e il sotto. Solo alcuni eletti possono avere il privilegio di vedere l’oltre e questo apre l’ultima grande pagina di questo semioticamente ricchissimo prodotto televisivo di massa. La più evidente delle dialettiche presenti è ovviamente lo scontro realtà ufficiale vs. realtà parallela, quella in cui si perde il bambino, e in cui Barbara si insinua dalla piscina: o in cui i “Mib” governativi cercano di entrare e che si manifesta all’esterno soltanto attraverso luci, forme ed echi impercettibili. Solo chi è dotato di “terzo occhio”, dicevo, può avervi accesso. “Essi vivono” è il film che meglio aveva descritto questa situazione. Carpenter descrive un mondo che in maniera subliminale e nascosta ci condiziona, ci fa spendere e obbedire e il tutto diventa visibile soltanto attraverso un paio di occhiali da sole. Il film, altro ispiratore diretto di ST, disvelava in quel caso un mondo ignoto, le cui strutture erano ben nascoste ma percepibili e che ci spaventavano per la loro indeterminatezza, oltre che per lo spettro capitalistico immanente dei ruggenti Anni ‘80.

Ma cosa dire di un altro fenomeno di questi settimane che duplica in maniera per lo meno inquietante gli stimoli di cui ST si fa portavoce: i Pokémon hanno invaso il mondo, forse qualcuno se ne sarà accorto… Questi mostriciattoli non sono altro che entità nascosta agli occhi di chi non può vedere. Gli illuminati, ovvero chi scarica l’applicazione, indossano metaforicamente gli occhiali scuri di Carpenter, e si assumono la responsabilità di scollinare la realtà fisica facendosi carico di catturarli. Gli altri, gli ignari, non sanno, non hanno accesso a questo tipo di informazione riservata agli eletti, e non si curano del Pokémon che bivacca a pochi metri dal loro cuscino.

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Il fatto che due dei fenomeni planetari più importanti delle ultime settimane ci parlino entrambi di realtà globali, diffuse, invisibili, inesplicabili ai più e che possono essere comprese solo da poche persone, andrebbe probabilmente analizzato ma storicizzare il presente non è mai pratica semplice, e soprattutto comporta il serio rischio di dire sciocchezze. Per ora non ci resta che prendere atto che la fantascienza, in termini di cinema e videogame, ci sta come sempre mettendo di fronte alle nostre paure più nascoste. Il genere “B“ per eccellenza è da sempre lo specchio del nostro inconscio, metafora delle nostre inquietudini. Che la paura di avere una realtà “altra” dalla nostra che ci sta scavando terra da sotto i piedi possa essere il vero motivo di questa tendenza può essere affascinante. Che la sensazione di un nuovo corso storico alle porte (guerre di religioni, terrorismo, decrescita, nuove forme di controllo e di organizzazione sociale) ci pervada può essere teoria interessante ma nello stesso tempo banale e superficiale. Ma mentre qualcosa di terribilmente infido si sta insinuando di nascosto nel nostro immaginario culturale, provare a riflettere e inforcare gli occhiali per vederci chiaro mi sembrano le uniche cose sensate da fare.