(Nota: Articolo scritto prima delle risultanze processuali.)

La vicenda di Stefano Cucchi, il ragazzo romano morto nell’ottobre del 2009  in seguito ai pestaggi subiti in cella e vittima dell’omertà che ne rende tuttora oscura la vicenda nonostante i due gradi di giudizio, è tragicamente esemplare, e nello stesso tempo a serio rischio di polemiche politiche e strumentalizzazioni: ecco perché raccontarne i fatti, tanto più a processo in corso, è stata certamente impresa delicata e rischiosa. L’approccio di Cartolano però riesce a far volare alto il racconto con rigore e sensibilità, coadiuvati da testimonianze illustri, lucide nella loro asetticità, che fanno di “148 Stefano. Mostri dell’inerzia” un documentario analitico, esaustivo e soprattutto sereno. L’autore sceglie di non ricorrere a voci fuori campo affidandosi ad un montaggio di interviste e testimonianze che dettano il ritmo della narrazione e non consentono scivolamenti retorici: le coperture raccontano una Roma popolare, talvolta raggelante, con carrellate ipnotiche e discrete ricostruzioni “fumettistiche” della tragica, ultima settimana del detenuto e le “assenze” delle istituzioni spiccano con il loro fragoroso silenzio che sa tanto di confessione. La tesi dell’individuo che si imbatte nel il sistema -che si fa entità attraverso un complesso dedalo di timbri, divieti, permessi e che di fatto ha impedito allora, e continua oggi, a negare identità e diritti di Stefano- è il filo rosso che pervade gli interventi di familiari, avvocati e testimoni del caso, che descrivono implicitamente il percorso ad ostacoli che il Potere organizza per difendere se stesso.Ci si chiede cosa sarebbe accaduto se la famiglia di questo giovane non fosse stata culturalmente progredita e equilibrata ma al contrario disperata e problematica; la decisione di difendere i propri diritti facendo pubblicare le immagini dell’autopsia che mostrarono all’opinione pubblica la prova inconfutabile del pestaggio ai danni del giovane (l’allora sottosegretario alla presidenza Giovanardi lo definì semplicemente “un drogato”, categoria di certo più spendibile presso il suo elettorato) fu tanto difficile quanto consapevole e il rispetto di tale scelta viene confermato dagli autori del documentario che, con la decisione cinicamente e “commercialmente” controproducente di non riproporla, dimostrano l’estrema forma di rispetto che ha caratterizzato il loro lavoro. La chiave del testo d’altronde è già nel titolo: crittografico, apparentemente incomprensibile, almeno fino alla sua spiegazione, e  soprattutto gelido, distante dalla storia prettamente umana del/dei protagonisti, ovvero il sistema perverso in cui Cucchi si è impantanato e da cui è stato ucciso, ancor più che dalle botte ricevute.